lunedì 22 gennaio 2018

PAINTINGS AND THE CITY












Le prime significative rappresentazioni di città sono legate, e non poteva essere altrimenti, all’Italia, e in particolare alla nascita dei Comuni, contestualmente alla ricostituzione di un vero e proprio tessuto urbano, dopo i secoli del Feudalesimo.


Giotto, Storie di San Francesco, Rinuncia ai beni terreni, 1300 circa


Se Assisi è il soave sfondo delle "Storie di San Francesco" mirabilmente rappresentate da Giotto, è tuttavia Siena la prima città ad assurgere a protagonista di un dipinto di una certa fama.
Nel XIV secolo la città toscana è uno dei centri più floridi d’Europa (ancor più della vicina Firenze), e nel Palazzo Pubblico che si affaccia sulla celeberrima Piazza del Campo, Ambrogio Lorenzetti omaggia la buona amministrazione della Repubblica Senese. Gli “Effetti del buongoverno in città” è un’opera paradigmatica nel raccontare l’uscita dal Medioevo, con il suo brulicare di attività commerciali, il ritrovato gusto di stare insieme, l’orgoglio di appartenere a una comunità virtuosa.
Un centinaio di anni dopo, la città diventa oggetto di utopici progetti da parte degli artisti del Rinascimento. La “Città ideale” (opera forse di Francesco Di Giorgio Martini, forse di Piero della Francesca, forse di Luciano Laurana) è uno sguardo visionario su un mondo futuristico, armonioso e funzionale.
A parte queste dissertazioni teoriche, il Rinascimento Italiano è chiaramente orientato su tematiche che poco chiamano in causa la vita cittadina. Con l’eccezione di Venezia che, ansiosa di celebrare la propria grandeur di regina dei commerci marittimi, arruola i grandi dell’epoca, dai fratelli Bellini a Carpaccio. 
D’ora in avanti, il fil rouge fra i luoghi simbolo della Serenissima (Canal Grande, Piazza San Marco, il Ponte di Rialto) e i pittori di ogni angolo del globo non si spezzerà più fino ai giorni nostri.



Gentile Bellini, Processione in Piazza San Marco, 1496





Ma è il Rinascimento Fiammingo a fare dei “quadri cittadini” un vero e proprio genere. Le piazze di Pieter Bruegel (“Lotta fra Carnevale e Quaresima”) sono dei teatri all'aperto, dove si contrappongono simbolicamente cittadini dediti ai vizi, alcolizzati e blasfemi, ad altri laboriosi e timorati di Dio.
Questo gusto per la rappresentazione del quotidiano si trasmette nel XVI secolo all’Olanda, fresca di indipendenza e in pieno boom economico. Amsterdam (“Piazza Dam” di Gerrit Berckheyde) e Delft (“Veduta di Delft”, uno dei rarissimi “esterni” di Vermeer) sono i centri più rappresentati, in quel trionfo della pittura laica e borghese che è il “Secolo d’oro olandese”.
Ma molti artisti del Nord Europa decidono viceversa di raggiungere l’Italia, e in particolare a Roma, capitale della seconda fase del Rinascimento Italiano. Inizia qui un filone che avrà successo imperituro nei secoli a venire: la rappresentazione, talvolta realistica talvolta idealizzata, dei grandi centri del Belpaese da parte di artisti stranieri di ogni latitudine, approdati in Italia a “respirare” la Classicità e a immortalarne la magica atmosfera.
Il Settecento è il secolo dei Vedutisti. Straordinaria la scuola veneta. Se la prodigiosa precisione formale di Canaletto esalta la Venezia più ufficiale e opulenta (“Ricevimento dell’Ambasciatore Imperiale a Palazzo Ducale”), lo stile evanescente di Francesco Guardi (“Veduta dell’isola di San Giorgio Maggiore”) tende a darne una visione più intima e crepuscolare.
Canaletto esporterà il suo ineguagliabile talento in Inghilterra, ma il più esterofilo dei vedutisti veneti è Bernardo Bellotto, che avrà straordinario successo nell’Europa centro-orientale: “Il Mercato Nuovo di Dresda” (presso la Pinacoteca Agnelli) e “Il Castello di Schonbrunn” a Vienna fra i suoi capolavori, mentre “Veduta di Varsavia dal Palazzo Reale” sarò utile punto di riferimento per ricostruire la capitale polacca dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale.


Canaletto, Londra dall'arco di Westminster Bridge, 1747



Di gran moda il “capriccio”, un paesaggio immaginario composto da edifici reali e di fantasia, tanto del presente quanto del mondo classico. Grandi interpreti sono, oltre ai veneti, Panini (“Capriccio di rovine classiche”), l’incisore Piranesi e il francese Robert.
Il Romanticismo di inizio ‘800 è sedotto dalla natura e dai paesaggi incontaminati, ma non mancano esempi di amanti dei centri abitati: se Rudolf Von Alt canta la Vienna asburgica (“Cattedrale di Santo Stefano dallo Stock-im-Eisen”), straordinario e originalissimo è “L’incendio della Camera dei Comuni e dei Lord” di Turner, istantanea di una Londra di metà ‘800.
La seconda parte del XIX secolo ha una protagonista assoluta: Parigi. Il rinnovamento urbanistico sotto Napoleone III rende la capitale francese straordinariamente affascinante e vivace, e gli Impressionisti ne diventano rapidamente i cantori. Viali (la serie dei “Boulevard Montmartre” di Pissarro), ponti (“Pont Neuf”, Renoir) e stazioni ferroviarie (“Gare Saint Lazare”, Monet), tanto famigliari alla borghesia parigina, assurgono improvvisamente a protagonisti.
Gli Impressionisti, inizialmente osteggiati per non dire dileggiati, esportano rapidamente questo “marchio” di grande successo oltre i confini francesi. A Londra lavorano Monet e Pissarro, a Venezia Renoir e lo stesso Monet, per altro attivo anche ad Amsterdam.
Il Post-Impressionismo continua ad avere Parigi come centro di gravità: “Una domenica pomeriggio all’isola dellaGrande-Jatte” di Seurat richiama alla mente i pic-nic e i pranzi in riva alla Senna degli Impressionisti, per quanto la spensieratezza di quella stagione paia irrimediabilmente perduta. Se straordinariamente variopinta appare la Londra del parigino Derain (“La Cattedrale di St.Paul dal Tamigi”), da altre correnti d’avanguardia arriva tuttavia una decisa svolta nella visione della vita cittadina.


Vincent Van Gogh, Viale di Clichy, 1887




Precursori dell’Espressionismo come Ensor (“L’ingresso di Cristo a Bruxelles”) e Munch (la Oslo di “Sera sul viale Karl Johan”) anticipano di qualche anno la Berlino di Ernst Ludwig Kirchner (“Scena di strada a Berlino”), luogo alienante popolato da automi non comunicanti.
L’ultimo movimento a guardare con fiducia al mondo urbano è probabilmente il Futurismo: “La città che sale” di Boccioni trasuda dinamismo ed energia,  ma è una visione che avrà vita breve. Pochi anni dopo Sironi, futurista in gioventù, rappresenta strade e palazzi di una solenne monumentalità (“Paesaggio urbano con camion”), ma desolatamente privi di presenze animate.
Fra le due guerre spicca la figura di Kokoschka, che ai ritratti ansiogeni alterna “vedute” di capitali europee, con uno stile che naturalmente non ha nulla dell’accuratezza di un Canaletto. Ceco da parte di padre, trova in Praga (“Ponte Carlo”) il suo soggetto preferito, ma potremmo aggiungere Amsterdam, Costantinopoli, Stoccolma e tante altre.
Kokoschka rientra negli “Artisti Degenerati”, la lista nera, emanata dai Nazisti, degli artisti ritenuti “non in linea” con l’ideologia del Terzo Reich. Questa agghiacciante lista di proscrizione non può che chiamare alla mente i tedeschi Dix e Grosz (entrambi autori di un quadro denominato “Metropolis”) in cui individui libertini si divertono sguaiatamente, facendosi largo fra mutilati reduci della Prima Guerra Mondiale.
Mentre l’Italia continua ad esercitare un fascino indiscutibile anche nel ‘900 (pensiamo alle labirintici borghi medioevali di Escher), l’ultimo secolo del Millennio pone al centro dell’attenzione le metropoli americane, e  New York su tutte.
Intorno al movimento dell'Ashcan School ruotano numerosi artisti che descrivono la “Grande Mela” nella sua doppia natura di cuore pulsante di una nazione in enorme espansione (“New York” di Bellows o “Hester Street” di Luks), ma anche di luogo spettrale e straniante ( la cupa “Neve a New York” di Henri e l’iconico “Nottambuli” di Hopper).
Quello della metropoli come luogo della solitudine e della spersonalizzazione è un tema che torna anche nel secondo Dopoguerra. Basti pensare alle città semi-deserte dell’iperrealista Estes (“Time Square, New York City”, ma anche Londra, Parigi e Barcellona). 
L’Iperralismo è forse l’ultimo movimento che pone la città al centro delle sue tematiche. Per trovare uno “specialista” dobbiamo rivolgerci al pop di Hiro Yamagata (“Great Tap Festival”) e alle sue fantasmagoriche “città-Luna Park”.


Banksy, Il cane di Keith Haring, 2010 


A ben vedere si potrebbe dire che le metropoli in questi ultimi decenni hanno subito un curioso ribaltamento di ruoli, trasformandosi da mero oggetto della rappresentazione a tele su cui gli artisti della Street Art descrivono, in una curiosa compenetrazione fra contenente e contenuto, vizi e tic dei suoi abitanti.







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