Le prime significative rappresentazioni di città sono legate, e non poteva essere altrimenti, all’Italia, e in particolare alla nascita dei Comuni, contestualmente alla ricostituzione di un vero e proprio tessuto urbano, dopo i secoli del Feudalesimo.
Giotto, Storie di San Francesco, Rinuncia ai beni terreni, 1300 circa
Se
Assisi è il soave sfondo delle "Storie di San Francesco" mirabilmente rappresentate da Giotto, è tuttavia Siena la
prima città ad assurgere a protagonista di un dipinto di una certa fama.
Nel
XIV secolo la città toscana è uno dei centri più floridi d’Europa (ancor più
della vicina Firenze), e nel Palazzo Pubblico che si affaccia sulla celeberrima
Piazza del Campo, Ambrogio Lorenzetti omaggia la buona amministrazione della
Repubblica Senese. Gli “Effetti del buongoverno in città” è un’opera paradigmatica nel raccontare l’uscita dal
Medioevo, con il suo brulicare di attività commerciali, il ritrovato gusto di
stare insieme, l’orgoglio di appartenere a una comunità virtuosa.
Un
centinaio di anni dopo, la città diventa oggetto di utopici progetti da parte
degli artisti del Rinascimento. La “Città ideale” (opera forse di Francesco Di Giorgio Martini, forse di Piero della
Francesca, forse di Luciano Laurana) è uno sguardo visionario su un mondo futuristico,
armonioso e funzionale.
A
parte queste dissertazioni teoriche, il Rinascimento Italiano è chiaramente
orientato su tematiche che poco chiamano in causa la vita cittadina. Con
l’eccezione di Venezia che, ansiosa di celebrare la propria grandeur di regina dei commerci marittimi, arruola i grandi dell’epoca, dai fratelli Bellini a
Carpaccio.
D’ora
in avanti, il fil rouge fra i luoghi simbolo della Serenissima (Canal Grande, Piazza San Marco, il Ponte di Rialto) e i pittori di ogni angolo del globo non
si spezzerà più fino ai giorni nostri.
Gentile Bellini, Processione in Piazza San Marco, 1496
Ma
è il Rinascimento Fiammingo a fare dei “quadri cittadini” un vero e proprio
genere. Le piazze di Pieter Bruegel (“Lotta fra Carnevale e Quaresima”) sono dei teatri all'aperto, dove si
contrappongono simbolicamente cittadini dediti ai vizi, alcolizzati e blasfemi,
ad altri laboriosi e timorati di Dio.
Questo
gusto per la rappresentazione del quotidiano si trasmette nel XVI secolo all’Olanda,
fresca di indipendenza e in pieno boom economico. Amsterdam (“Piazza Dam” di Gerrit Berckheyde) e Delft
(“Veduta di Delft”, uno dei rarissimi
“esterni” di Vermeer) sono i centri più rappresentati, in quel trionfo della
pittura laica e borghese che è il “Secolo d’oro olandese”.
Ma
molti artisti del Nord Europa decidono viceversa di raggiungere l’Italia, e in
particolare a Roma, capitale della seconda fase del Rinascimento Italiano. Inizia
qui un filone che avrà successo imperituro nei secoli a venire: la
rappresentazione, talvolta realistica talvolta idealizzata, dei grandi centri
del Belpaese da parte di artisti stranieri di ogni latitudine, approdati in
Italia a “respirare” la Classicità e a immortalarne la magica atmosfera.
Il
Settecento è il secolo dei Vedutisti. Straordinaria la scuola veneta. Se la prodigiosa
precisione formale di Canaletto esalta la Venezia più ufficiale e opulenta (“Ricevimento dell’Ambasciatore Imperiale a
Palazzo Ducale”), lo stile evanescente di Francesco Guardi (“Veduta dell’isola di San Giorgio Maggiore”)
tende a darne una visione più intima e crepuscolare.
Canaletto
esporterà il suo ineguagliabile talento in Inghilterra, ma il più esterofilo
dei vedutisti veneti è Bernardo Bellotto, che avrà straordinario successo
nell’Europa centro-orientale: “Il Mercato Nuovo di Dresda” (presso la Pinacoteca Agnelli) e “Il Castello di Schonbrunn” a Vienna fra i suoi capolavori, mentre “Veduta di Varsavia dal Palazzo Reale”
sarò utile punto di riferimento per ricostruire la capitale polacca dopo le
devastazioni della Seconda Guerra Mondiale.
Canaletto, Londra dall'arco di Westminster Bridge, 1747
Di
gran moda il “capriccio”, un paesaggio immaginario composto da edifici reali e
di fantasia, tanto del presente quanto del mondo classico. Grandi interpreti
sono, oltre ai veneti, Panini (“Capriccio
di rovine classiche”), l’incisore Piranesi e il francese Robert.
Il
Romanticismo di inizio ‘800 è sedotto dalla natura e dai paesaggi
incontaminati, ma non mancano esempi di amanti dei centri abitati: se Rudolf
Von Alt canta la Vienna asburgica (“Cattedrale di Santo Stefano dallo Stock-im-Eisen”), straordinario e originalissimo
è “L’incendio della Camera dei Comuni e
dei Lord” di Turner, istantanea di una Londra di metà ‘800.
La
seconda parte del XIX secolo ha una protagonista assoluta: Parigi. Il
rinnovamento urbanistico sotto Napoleone III rende la capitale francese
straordinariamente affascinante e vivace, e gli Impressionisti ne diventano rapidamente
i cantori. Viali (la serie dei “Boulevard Montmartre” di Pissarro), ponti (“Pont Neuf”, Renoir) e stazioni ferroviarie (“Gare Saint Lazare”, Monet), tanto famigliari alla borghesia parigina, assurgono improvvisamente
a protagonisti.
Gli
Impressionisti, inizialmente osteggiati per non dire dileggiati, esportano
rapidamente questo “marchio” di grande successo oltre i confini francesi. A
Londra lavorano Monet e Pissarro, a Venezia Renoir e lo stesso Monet, per altro
attivo anche ad Amsterdam.
Il
Post-Impressionismo continua ad avere Parigi come centro di gravità: “Una domenica pomeriggio all’isola dellaGrande-Jatte” di Seurat richiama alla mente i pic-nic e i pranzi in riva
alla Senna degli Impressionisti, per quanto la spensieratezza di quella
stagione paia irrimediabilmente perduta. Se straordinariamente variopinta appare
la Londra del parigino Derain (“La Cattedrale di St.Paul dal Tamigi”), da altre correnti d’avanguardia arriva tuttavia una
decisa svolta nella visione della vita cittadina.
Vincent Van Gogh, Viale di Clichy, 1887
Precursori
dell’Espressionismo come Ensor (“L’ingresso di Cristo a Bruxelles”) e Munch (la Oslo di “Sera sul viale Karl Johan”) anticipano di qualche anno la Berlino
di Ernst Ludwig Kirchner (“Scena di
strada a Berlino”), luogo alienante popolato da automi non comunicanti.
L’ultimo
movimento a guardare con fiducia al mondo urbano è probabilmente il Futurismo:
“La città che sale” di Boccioni
trasuda dinamismo ed energia, ma è una
visione che avrà vita breve. Pochi anni dopo Sironi, futurista in gioventù,
rappresenta strade e palazzi di una solenne monumentalità (“Paesaggio urbano con camion”), ma
desolatamente privi di presenze animate.
Fra
le due guerre spicca la figura di Kokoschka, che ai ritratti ansiogeni alterna
“vedute” di capitali europee, con uno stile che naturalmente non ha nulla
dell’accuratezza di un Canaletto. Ceco da parte di padre, trova in Praga (“Ponte Carlo”) il suo soggetto preferito,
ma potremmo aggiungere Amsterdam, Costantinopoli, Stoccolma e tante altre.
Kokoschka
rientra negli “Artisti Degenerati”, la lista nera, emanata dai Nazisti, degli
artisti ritenuti “non in linea” con l’ideologia del Terzo Reich. Questa
agghiacciante lista di proscrizione non può che chiamare alla mente i tedeschi
Dix e Grosz (entrambi autori di un quadro denominato “Metropolis”) in cui individui libertini si divertono sguaiatamente,
facendosi largo fra mutilati reduci della Prima Guerra Mondiale.
Mentre
l’Italia continua ad esercitare un fascino indiscutibile anche nel ‘900
(pensiamo alle labirintici borghi medioevali di Escher), l’ultimo secolo del
Millennio pone al centro dell’attenzione le metropoli americane, e New York su
tutte.
Intorno
al movimento dell'Ashcan School ruotano numerosi artisti che descrivono la
“Grande Mela” nella sua doppia natura di cuore pulsante di una nazione in
enorme espansione (“New York” di
Bellows o “Hester Street” di Luks),
ma anche di luogo spettrale e straniante ( la cupa “Neve a New York” di Henri e l’iconico “Nottambuli” di Hopper).
Quello
della metropoli come luogo della solitudine e della spersonalizzazione è un
tema che torna anche nel secondo Dopoguerra. Basti pensare alle città
semi-deserte dell’iperrealista Estes (“Time
Square, New York City”, ma anche Londra, Parigi e Barcellona).
L’Iperralismo
è forse l’ultimo movimento che pone la città al centro delle sue tematiche. Per
trovare uno “specialista” dobbiamo rivolgerci al pop di Hiro Yamagata (“Great Tap Festival”) e alle sue
fantasmagoriche “città-Luna Park”.
A
ben vedere si potrebbe dire che le metropoli in questi ultimi decenni hanno
subito un curioso ribaltamento di ruoli, trasformandosi da mero oggetto della
rappresentazione a tele su cui gli artisti della Street Art descrivono, in una curiosa
compenetrazione fra contenente e contenuto, vizi e tic dei suoi abitanti.
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